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Capitolo 407: Gli Spiriti di Maggio

Questo mese sto guardando pochi film, lo so, è incredibile. Un po’ è colpa della primavera, che mi porta fuori casa più di quanto vorrei, un po’ del lavoro, che mi trattiene al pc anche negli orari che solitamente dedico al cinema, un po’ è colpa degli ultimi ritocchi di – udite! udite! – un libro che sono in procinto di pubblicare, La Strada Altrove. Al momento opportuno farò un post dedicato, per dirvi di più, per ora posso anticipare che si tratta di una storia autobiografica passata in giro per il mondo, tra Parigi, Berlino, New York e tante altre città, un racconto di formazione tra le inquietudini della generazione post-universitaria, oltre che una guida emozionale di città meravigliose (in cui ci sarà spazio per tante citazioni cinematografiche, vero faro di ogni mio viaggio). A ogni modo, sarà disponibile online e in libreria dal 15 giugno, vi terrò aggiornati, che lo vogliate o no! Ora però passiamo ai film, che mi sono dilungato un po’ troppo.

Margini (2022): Su RaiPlay trovate questo bel film di Niccolò Falsetti, che avevo già avuto il piacere di vedere in sala un paio d’anni or sono. Premio del pubblico alla Settimana Internazionale della Critica al Festival di Venezia, questo film d’esordio, prodotto tra gli altri dai Manetti Bros, è divertente, scanzonato, ti costringe a fare i conti con il peso dei tuoi sogni ma sa farlo con leggerezza e vitalità. Siamo a Grosseto, una ventina d’anni fa: tre ragazzi che suonano in una band punk locale, stanchi di doversi sempre spostare ovunque per suonare e per sentire le band che amano, decidono di organizzare il concerto di un celebre gruppo statunitense là da loro, con tutti gli oneri del caso: trovare una location, trovare l’attrezzatura e soprattutto trovare i soldi. Il cinema può anche essere una cosa semplice, basta avere belle idee. Una bella sorpresa, da vedere.
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Tendaberry (2024): Altra opera prima, stavolta di Haley Elizabeth Anderson. L’incipit e la conclusione sono davvero emozionanti, nel mezzo ci sono tante cose da dire e una voce non sempre del tutto coerente. Ma quanta passione, quanta emozione, quanta voglia di urlare “cinema”! La vicenda segue i passi di una ragazza a Brooklyn, con un figlio in grembo e un ragazzo costretto a tornare in Ucraina dalla famiglia. Una storia di formazione che ha incantato il Sundance e che ora trovate su Mubi. “Non voglio essere un cumulo di tristezza”, dice la protagonista: diamine, che voglia di abbracciarla, in quel momento. Lunga vita al cinema indipendente, alle riprese con le luci naturali, alle interpretazioni sporche, alla macchina a mano. Da vedere.
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Gloria! (2024): Ho seguito i David di Donatello e mi sono preso una mezza cotta per Margherita Vicario, che non conoscevo. Incuriosito dai tanti premi ricevuti, ho recuperato il suo film d’esordio dello scorso anno, la storia di una servetta in un istituto di educande del 1800. La ragazza scopre per caso un pianoforte in un magazzino e comincia a suonarlo di nascosto, dimostrando passione e talento per una musica molto più moderna rispetto ai canoni dell’epoca. Nato come omaggio alle tante donne musiciste dell’800, a cui è sempre stato impedito di esprimersi e comporre, a differenza dei colleghi maschi, è un piccolo film pieno di vitalità e gioia. Mi sono proprio divertito.
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Game Night (2018): Opera seconda di John Francis Daley e Jonathan Goldstein, una commedia simpatica e con un buon cast, dove però si ha costantemente l’impressione che si siano divertiti più loro a girarlo che noi a guardarlo. Rachel McAdams e suo marito Jason Bateman sono dei malati di giochi da tavola, giochi di ruolo, quiz: qualunque cosa, purché si giochi. Una sera il fratello di lui organizza una serata interattiva, con finti rapimenti e indagini, dove però qualcosa va storto: qualcuno viene rapito davvero. Equivoci, qualche gag divertente e poco altro, buono per una serata a cervello spento, senza pretese.
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Amore e Guerra (1975): Negli anni 70 Woody Allen è stato investito da un’ispirazione senza precedenti. Ogni suo film era composto da trovate irresistibili, riflessioni emozionanti, seppur comiche e un’aura di genialità che nei decenni successivi è andata un po’ a fasi alterne (anche se il cinema – e noi con lui – ringrazia). Qui Allen omaggia i classici della letteratura russa, mischiandoli con suggestioni e citazioni di Bergman, raccontando la storia di un inetto che, senza volerlo, diventa un eroe militare. Esilarante quanto sofisticato, è una collezione di battute memorabili, tra cui quella di una strepitosa Diane Keaton: “Amare è soffrire. Se non si vuol soffrire, non si deve amare. Però allora si soffre di non amare. Pertanto amare è soffrire, non amare è soffrire, e soffrire è soffrire. Essere felice è amare: allora essere felice è soffrire. Ma soffrire ci rende infelici. Pertanto per essere infelici si deve amare. O amare e soffrire. O soffrire per troppa felicità. Io spero che tu prenda appunti”. La vita sarebbe migliore se si guardassero più spesso i film di Woody Allen.
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Gli Spiriti dell’Isola (2022): Erano due anni buoni che aspettavo di fare un rewatch di questo bellissimo film di Martin McDonagh, uno dei grandi geni del nostro tempo (è l’unico drammaturgo, oltre a un certo William Shakespeare, che a 27 anni ha avuto quattro suoi spettacoli rappresentati simultaneamente nei teatri del West End di Londra). In un villaggio di poche anime due migliori amici si ritrovano improvvisamente ai ferri corti, mentre al di là del mare imperversano gli spari della guerra civile irlandese. Una tragicommedia dove la disperazione esistenziale tra chi non vuole più sprecare un minuto della sua vita e chi invece non vuole rassegnarsi alla solitudine si snoda come una scazzottata psicologica, in un’escalation di rappresaglie da far impallidire la guerra civile che percepiamo dall’altra parte del mare. Colin Farrell e Brendan Gleeson sono perfetti, in questo film beffardo, tragico, ironico e, soprattutto, infinitamente dolce. Nove candidature agli Oscar (di cui addirittura quattro per gli interpreti) e zero statuette. Un filmone.
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Capitolo 394: Vacanze di Natale

Ultimo capitolo prima delle festività natalizie e, soprattutto, della consueta Top 20 annuale che non vedo l’ora di proporvi (ancora qualche giorno di pazienza). Anche se restano quasi dieci giorni alla fine dell’anno, posso già tirare qualche somma su questo mio grandioso 2024 cinematografico. Dico grandioso perché da quando ho cominciato a tenere il conto (2014, dati Letterboxd), questo è stato l’anno in cui ho visto più film in assoluto, ben 232, battendo il “record” del 2020 in cui ne vidi 224. Lo so, non sono numeri di cui andare particolarmente fiero (significa che ho dedicato meno tempo ad altre cose), ma che volete farci, finché c’è il cinema a fare da punteggiatura, il resto della frase vien da sé.

Made in England: I Film di Powell e Pressburger (2024): Da molto tempo volevo vedere questo documentario dedicato al cinema britannico, in particolar modo sul cinema di Powell e Pressburger di cui, Scarpette Rosse a parte, non avevo praticamente mai sentito parlare. Capirete la mia sorpresa quando, dopo aver schiacciato play, ho visto Martin Scorsese tenere una vera e propria lezione di cinema sull’argomento, analizzando la filmografia dei due registi inglesi, mescolando aneddoti personali a meravigliose esegesi di alcune scene. A parte il fatto che sentirei Scorsese parlare anche per 820 ore filate, il documentario è veramente bellissimo. Lo trovate su Mubi.
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Scarpette Rosse (1948): Inevitabile quindi, dopo aver visto il documentario di cui sopra, cominciare a recuperare qualcosa della filmografia di Powell e Pressburger. Da cosa cominciare se non dal loro film più celebre, incentrato su una compagnia di balletto guidata da un integerrimo impresario, che lancia nell’Olimpo una ballerina sconosciuta e un geniale compositore, grazie alla messa in scena della fiaba di Andersen che dà il titolo al film. L’arte prima di tutto, certo, ma a che costo? Per essere un film del 1948 è un’opera straordinaria, ricca di richiami suggestivi, con colori brillanti e una messa in scena audace (Scorsese in quel documentario lo spiega molto meglio di me…). Nominato in cinque categorie agli Oscar, ne vinse soltanto due, per la scenografia e la colonna sonora. Splendido.
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Love Lies Bleeding (2024): Che bella sorpresa quest’opera seconda della giovane regista londinese Rose Glass. Ad Albuquerque, nella palestra gestita da Kristen Stewart, una sera piomba una culturista fuggita di casa per prepararsi a un festival di body building che si tiene a Las Vegas. Le due ragazze si innamorano, ma la situazione ben presto precipita. Ci sono echi di Thelma e Louise, con un vago richiamo al cinema dei Coen, c’è una dose di violenza potente ma non eccessiva, ci sono steroidi, c’è un Ed Harris viscido e inquietante: il tutto è messo insieme così bene dalla regista, che quando il film finisce sei davvero soddisfatto per come hai speso gli ultimi 100 minuti. Certo che tra questo e l’universo di Breaking Bad, Albuquerque deve essere proprio un cavolo di posto pericoloso.
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Medianeras (2011): Avevo già visto questo film di Gustavo Taretto al cinema, quando uscì da noi, nell’ottobre del 2014. Siamo a Buenos Aires, un trentenne vive praticamente chiuso in casa, tranne quando esce a portare a spasso il cane lasciatogli dalla sua ex. Di fronte a lui, a sua insaputa, vive invece una ragazza, laureata in architettura ma costretta a campare come vetrinista. Lei è più aperta al mondo, ma ha conversazioni più interessanti con i manichini che con gli uomini che incontra. Due solitudini che si incrociano per strada in tante occasioni, sfiorandosi, senza mai incontrarsi. Un film tenero, con alcuni spunti molto interessanti (il paragone tra l’architettura confusa e schizofrenica di Buenos Aires e la persone che la abitano), personaggi adorabili e la malinconia tipica del cinema argentino. Taretto è bravo a rendere il disagio di una generazione che vive una costante condizione di precarietà, sia professionale che sentimentale, di un mondo a portata di clic dove però è difficile stringere relazioni stabili. Bello, lo trovate su Prime.
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Tatami (2023): Il film più bello che ho visto a dicembre, il classico recupero dell’ultimo mese che arricchisce il mio 2024 cinematografico. La squadra iraniana femminile di judo si reca in Georgia per i campionati mondiali. Il capitano della squadra ha ottime possibilità di vincere la medaglia d’oro, ma potrebbe esserci la possibilità di incontrarsi in finale con un’atleta israeliana, un incontro che il regime iraniano vuole assolutamente evitare. Senza bisogno di aggiungere altro, il film di Guy Nattiv e Zar Amir Ebrahimi è un racconto di libertà e femminismo, ennesimo film di questo capitolo che vede al centro della scena delle donne forti: tra tanti splendidi personaggi femminili citati nelle righe precedenti, il ritratto più potente e strepitoso è senza dubbio quello della protagonista di questo splendido film. Commovente.
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Vacanze in America (1984): L’altra sera, mentre scrivevo l’articolo sui festival di cinema di tutto il mondo, avevo in sottofondo Italia1, dove si giocava il secondo tempo di una partita di Coppa Italia. Finito l’articolo (e anche il post-partita) in tv è cominciato questo cult di Carlo Vanzina, che non vedevo dai tempi di scuola. A differenza dei miei ex-compagni di classe, questo non è mai stato un mio film di culto, ad ogni modo è stata una visione interessante. La storia racconta la gita negli States di un gruppo di liceali di un istituto cattolico di Roma, guidato dal prete Christian De Sica nei panni di Don Buro (forse il ruolo più memorabile della sua carriera). Una sfilza di battute inspiegabilmente brutte, cliché a non finire e citazioni pop, eppure il tutto, nel suo orrido insieme, riesce a funzionare, quantomeno come salto nel tempo: nonostante la bruttezza infatti, il film di Vanzina è un clamoroso specchio degli anni 80, sia per l’immaginario statunitense che evoca che per atteggiamenti e modi di fare italiani, e c’è una certa nostalgia in tutto ciò (non per tutto, per carità). Tra le note di merito va segnalata inoltre una splendida selezione musicale nella colonna sonora: Vicious di Lou Reed, Jump delle Pointer Sisters (la canzone resa celebre dal balletto di Hugh Grant in Love Actually, per intenderci), Take Me Home Country Roads di John Denver, The Midnight Special dei Creedence o I Get Around dei Beach Boys, tra le altre.
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Bussano alla Porta (2023): Tipico film di M. Night Shyamalan con un primo atto molto bello e accattivante, ma con uno sviluppo ripetitivo e poco coinvolgente. Quattro estranei si introducono in una baita di montagna abitata da una coppia e dalla loro figlioletta. Gli estranei, con affabilità ed estremo tatto, comunicano alla coppia di scegliere chi voler eliminare della loro famiglia, se no si scatenerà l’apocalisse, tutti gli esseri umani moriranno tranne loro, che si ritroverebbero vivi, ma unici sopravvissuti in un mondo distrutto (sic). Ad ogni rifiuto da parte della coppia verrà scatenata una piaga sulla Terra per dimostrare che la minaccia è reale. Se questa premessa vi sembra una cazzata colossale e perché, in tutta probabilità, è esattamente ciò su cui si basa il film, che da qui in poi sarà prevedibile in ogni suo beat, in ogni sua svolta, finale compreso. Da premiare però l’idea di caratterizzare gli antagonisti come delle persone meravigliosamente gentili, a tal punto da vedere anche loro come personaggi positivi. Lo trovate su Netflix, ma mi auguro che abbiate modi migliori di impiegare il vostro tempo.
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Recensione “Here” (2024)

Hic et nunc, qui e ora, dicevano i latini. Qui e in ogni momento, risponde invece Robert Zemeckis, riarrangiando per il grande schermo la graphic novel omonima di Richard Maguire, dove osserviamo la storia di un pezzo di terreno, un lotto, una casa, un soggiorno, dagli albori della storia fino ai giorni nostri. Nel nuovo lavoro del regista di Forrest Gump, che vede la reunion cinematografica di Tom Hanks e Robin Wright, il tempo infatti scorre, così come le vite, con piccoli e grandi momenti di esistenze tutto sommato comuni, in un puzzle di gioie e dolori da comporre in un unico angolo del pianeta, attraverso i secoli, i decenni, gli anni.

Grazie a un massiccio utilizzo della computer grafica, che abbiamo già visto in altri film (come ad esempio The Irishman di Martin Scorsese), i volti di Hanks e Wright tornano quelli della loro adolescenza, poi della loro età adulta grazie a un de-aging in fin dei conti credibile, se non fosse che sembra di trovarsi in un videogame iper-realistico, una sorta di versione cinematografica di The Sims o qualcosa del genere (ed è abbastanza inquietante pensare che in The Congress di Ari Folman, la stessa Robin Wright interpretava la parte di un’attrice che cedeva i diritti digitali del suo volto per poter essere replicata all’infinito in qualunque film). Al di là dei discorsi tecnici, la sfida di Zemeckis di costruire 100 minuti di film in uno spazio circoscritto è decisamente vinta, in una serie di continui rimandi ad epoche passate (o future), utilizzando non dissolvenze o netti stacchi di montaggio, ma inserendo nelle immagini piccoli riquadri che apriranno la finestra sulla scena (ed epoca) successiva, mantenendo puro lo spirito della graphic novel, dove Maguire inseriva in ogni tavola diversi riquadri per mostrare cosa accadeva in quell’angolo del soggiorno in un tempo differente rispetto a quello del racconto: credetemi, è più facile vederlo che raccontarlo. Quell’unico frame, con i suoi giochi di sovrapposizione e comunicazione tra epoche differenti, ha certamente il suo fascino, quantomeno a livello visivo, poiché a livello narrativo funziona a intermittenza: sì, è bellissimo seguire l’evoluzione di questa famiglia, è divertente anche osservare i soldati della guerra d’indipendenza festeggiare la resa degli inglesi, ma alla fine cosa resta? Qualche ricordo, un po’ di tenerezza e forse la scarsa indulgenza nei confronti dei personaggi, visto che ciò che emerge maggiormente sono le amarezze della vita, le malattie, le disillusioni, il modo in cui i sogni e le aspirazioni di gioventù marciscano sotto strati di polvere e frustrazione (“Sarò un artista”, dice il giovane Tom Hanks a suo padre Paul Bettany, che gli risponde ironicamente: “il mondo ne ha proprio bisogno!”).

Non si può certamente dire che Here non sia un’opera originale e, per certi versi, interessante: è solo il ciclo della vita che si svolge in quella casa che, probabilmente, non lo è davvero abbastanza.

Recensione “Nosferatu” (2024)

Parafrasando Nietzsche, si può dire che se tu guarderai a lungo nell’oscurità, anche l’oscurità vorrà guardare dentro di te. Ed è proprio in un buio accecante che Eggers immerge lo spettatore (e Lily-Rose Depp) sin dalla primissima inquadratura, come a volerlo rendere parte di quella stessa notte buia, la stessa oscurità nella quale il regista fa muovere le sue ombre.

Il vampiro Nosferatu, il “non spirato”, nasce nel 1922 come plagio cinematografico del capolavoro di Bram Stoker Dracula, in uno dei film più simbolici della cinematografia di Murnau, dell’espressionismo tedesco e senza dubbio di tutto il cinema muto: qualunque cinefilo che si rispetti avrà presente l’inquietante sagoma deformata di Max Schreck, il primo Nosferatu del cinema, proiettata sulla parete della sua decadente magione. Eggers prende quell’ombra e la diffonde per 135 minuti di film sugli occhi di chi guarda, soprattutto tra le pieghe di un desiderio latente, quello di una protagonista eccezionale, che rispetto alle versioni precedenti di Nosferatu, qui diventa il vero e proprio motore della storia: Lily-Rose Depp è infatti splendida e inquietante al tempo stesso, a tal punto che forse mi spaventerebbe addirittura incontrarla per strada, e concede tutta se stessa ai suoi demoni, alla sua solitudine, al suo desiderio, in una società maschilista controllata da inetti, come il marito della sua Ellen, il solito Nicolas Hoult confuso e incapace di cambiare espressione, non importa se il suo personaggio venga bullizzato nel liceo descritto da Nick Hornby, sia in preda a dubbi etici e morali nella giuria di Clint Eastwood o terrorizzato nei Carpazi da un uomo molto più carismatico di lui (sebbene si tratti di uno spaventoso vampiro, questo glielo concediamo). Perché, diciamolo, è molto più interessante il rapporto che intercorre tra Ellen e Orlok rispetto a quello che la donna ha con suo marito: è infatti la lotta contro l’oscurità che Leni porta dentro la vera anima di questo convincente lavoro di Eggers, un horror gotico ricco di atmosfere e suggestioni appartenenti al secolo scorso, ma capace anche di essere moderno, sempre credibile e mai grottesco. La grandezza di questa nuova versione di Nosferatu è, al di là dell’indubbia potenza visiva, la capacità di reinventarsi in ogni scena, di essere coinvolgente anche di fronte a una storia che abbiamo visto in tutte le salse, che il regista statunitense però riesce a modernizzare con la metafora, neanche troppo sottile, di una donna indipendente in lotta contro una società di maschi dominanti, che frenano i suoi desideri, che decidono come deve vivere e che addirittura tentano di frenare la sua “follia” facendole indossare corpetti più stretti.

Il Conte Orlok può anche far paura (bravo Skarsgaard, ormai abbonato a vestire i panni dei mostri), ma non sarà mai così spaventoso come quando Eggers costringe noi spettatori – e ogni personaggio dei suoi film – a fare i conti con l’oscurità che portiamo dentro, che probabilmente rinneghiamo, ma che forse dovremmo imparare a riconoscere. Perché anche dopo la notte più buia, c’è sempre il sorgere del sole.

Capitolo 391: Cavalli a Dondolo e Cammelli

C’è tanta carne nel fuoco di questo freddo novembre, dal quale sono riemersi dai letarghi estivi i piumini più caldi e i cappotti più lunghi. Sette film che ballano tra la grandezza assoluta e la schifezza più inutile, ma anche tra primissimi piani su ragazze bellissime (Celeste Dalla Porta e Jennifer Connelly) a campi lunghissimi di cammelli nel deserto, fino a portarci nel distopico futuro di Coppola. Insomma, c’è talmente tanta roba da aver lasciato fuori dall’elenco l’ultimo film di Clint Eastwood, Giurato Numero 2, di cui però potete leggere la recensione completa. Tanti altri grandi film sono in arrivo, per cui restate sintonizzati (e vi ricordo che potete seguire tutto ciò che vedo sulla mia pagina Letterboxd).

The Snapper (1993): Trasposizione televisiva, prima dell’approdo in sala, realizzata da Stephen Frears, che ha adattato l’esilarante romanzo Bella Famiglia di Roddy Doyle. La figlia maggiore di una numerosa famiglia di Dublino resta incinta (snapper, in dialetto irlandese, significa proprio sbarbatello, bebé), ma non vuole rivelare l’identità del padre. I pettegolezzi inondano il quartiere e toccherà al patriarca Colm Meaney (irresistibile come sempre) mettere a tacere le voci e tenere unita la famiglia. Nel pieno della tradizione cinematografica irlandese dell’epoca (vedi The Commitments o Due sulla Strada, entrambi tratti da romanzi di Doyle), il film è spassoso, divertente, pienamente godibile, grazie anche ad una fotografia molto calda, botta e risposta secchi, immagini sempre ricche di personaggi. Good vibes a non finire: ok la moda degli anni 80, ma che bello pure il cinema degli anni 90.
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Parthenope (2024): Una fantasia maschile confezionata dalle mani di un maestro. Una ragazza bellissima che tutti desiderano e nessuno riesce a tenersi, una città splendida nella sua decadenza, crepuscolare nel suo splendore, accecato da sole, mare, bellezze di marmo rovinate dal tempo e il solito caleidoscopio di personaggi più o meno iconici. In questo film si giocano due campionati: quello dei pesi massimi, quando vedi in scena Gary Oldman e Silvio Orlando (pagherei oro per vedere uno spin-off incentrato solo su di lui), e poi quello in cui giocano i giovani attori, fuori luogo e fuori posto (casting discutibile). Alcuni momenti ovviamente splendidi e scelte musicali perfette, è pur sempre un film di Paolo Sorrentino, oltre ad alcune riflessioni sul tempo che passa che sono esattamente pane per i miei denti. Nel complesso però è un film sfilacciato, che si specchia nelle sue frasi ad effetto e nella bellezza della milanese Celeste Dalla Porta, dalla quale, come del resto fanno i personaggi del film, non riusciamo a staccare gli occhi di dosso (anche perché, con tutti quei primi piani, sarebbe difficile). Per essere un film di Sorrentino è deludente, non c’è dubbio, anche se sono tanti i momenti che ti porti appresso dopo l’uscita dalla sala.
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Super/Man: The Christopher Reeve Story (2024): Bellissimo e soprattutto emozionante documentario realizzato da Ian Bonhôte e Peter Ettedgui, incentrato sull’attore Christopher Reeve, primo, indimenticabile Superman cinematografico e, per quanto mi riguarda, unico Superman esistente (quello dei film dei due Richard, Donner e Lester). Il documentario ripercorre la vita di Reeve, il celebre casting per Superman, scoraggiato dal compagno di teatro William Hurt, la vita sentimentale, la famiglia e, ovviamente, l’incidente e la conseguente lesione spinale che lo rese tetraplegico. Un film che sottolinea la capacità dell’attore di trovare una nuova vita, di impegnarsi in una fondazione per la ricerca e di non mollare mai un centimetro nonostante la paralisi, il tutto raccontato dai suoi figli e dalle persone che gli erano accanto (come i colleghi Susan Sarandon, Jeff Daniels, Glenn Close e Whoopi Goldberg). Emozionano in particolare gli aneddoti sulla straordinaria amicizia tra Christopher Reeve e Robin Williams. Una storia piena di intensità (ma anche di momenti ironici), un racconto ben realizzato, un bellissimo documentario.
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Audition (1999): Che Takashi Miike sia matto scocciato (in senso buono) è abbastanza risaputo. Che si sia fatto conoscere in tutto il mondo grazie a questo film, l’ho scoperto solo ora. Rimasto vedovo, un uomo di mezza età, incoraggiato dal figlio, decide di aprirsi nuovamente all’amore. Grazie a un amico, produttore cinematografico, organizza un’audizione per un film che non si farà mai, al solo scopo di poter incontrare e conoscere una gran quantità di donne diverse. La scelta cade su una ragazza molto dolce e dall’aria malinconica, che secondo l’amico produttore però ha fornito solo referenze false. Che si nasconde dietro? Dietro si nasconde un film strepitoso, in pieno stile Miike, che nasce come romance, prosegue come noir, finisce come… Legatemi, non posso dire altro. Lo trovate su Mubi, ma ci sono alcuni momenti abbastanza cruenti quindi preparatevi.
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Tutto Può Accadere (1991): Un’ora e venti di male gaze su Jennifer Connelly che, per carità, potrei ammirarla anche per dieci ore, però magari intorno avrei preferito vederci un film. Tentativo (fallito) di rendere Frank Whaley (celebre per essere stato crivellato da Samuel L. Jackson nel primo atto di Pulp Fiction) il nuovo Matthew Broderick. Seconda, nonché penultima regia di Bryan Gordon, è la storia di un adolescente sbruffone, chiacchierone e nullafacente che, obbligato a lavorare come addetto alle pulizie notturno di un grande magazzino, si ritrova a passare la notte con una rampolla ribelle rimasta anch’ella chiusa dentro il negozio (che ovviamente è Jennifer Connelly, mai così meravigliosa, soprattutto nella scena in cui ci imbambola mentre monta su un cavallo a dondolo). John Hughes, tra i produttori e sulla cresta dell’onda per il successo di Mamma Ho Perso l’Aereo, si è talmente vergognato di questo film da chiedere, invano, di non essere citato nei titoli di testa. Non a torto: il film è veramente inutile, non è ironico (ci prova, sicuro, ma il protagonista è troppo irritante per risultare divertente), non è avvincente (e qui neanche ci prova), non è veramente nulla. Ah no, una cosa è senza dubbio: dimenticabile.

Megalopolis (2024): L’opera più divisiva del 2024 nonché una di quelle destinate a essere maggiormente ricordate. Il film a cui Francis Ford Coppola sta lavorando dai tempi di Apocalypse Now è finalmente realtà e c’è talmente tanta roba dentro che meriterebbe un saggio a parte, un approfondimento tutto suo. Quel che è certo è che sarà studiato, analizzato e raccontato in tesi di laurea e corsi universitari, data la sua visione del futuro, il modo in cui mette in scena i lati più oscuri del capitalismo immergendo il tutto in un’enorme metafora sulla caduta dell’Impero Romano. In pochissime parole è la storia di un architetto (Adam Driver) che sogna di costruire un’utopica comunità futuristica per far risorgere la città dai suoi mali. Ad ostacolare il progetto però, c’è un sindaco avido e conservatore (Giancarlo Esposito) che vorrebbe invece costruire un enorme casinò per arricchire le casse comunali. In mezzo a questa faida ci sono complotti, scandali, attentati, sesso, storie d’amore e sensi di colpa, oltre al potere di fermare il tempo, di renderlo sostanza, di plasmarlo a proprio piacimento. Un imponente caleidoscopio di grandezza e decadenza, che non solo mescola New York e l’Antica Roma in un’unica, distopica, realtà, ma riflette anche il pensiero di uno dei più grandi registi della sua generazione, capace di non scendere mai a compromessi con nessuno, di vendere i suoi asset personali pur di mettere in scena la sua visione del mondo, con un messaggio di speranza e una richiesta di ottimismo. Penso che il mondo ancora non sia pronto per questo film, ma ai vostri figli piacerà!
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Lawrence d’Arabia (1962): La vita va avanti, anno dopo anno, ed è bellissimo ogni tanto scoprire di avere ancora meraviglie di questo tipo da poter vedere per la prima volta. Sembra come rinascere e di finire la giornata sentendoti più ricco, in una migliore versione di te (senza bisogno di prendere alcuna substance!). Durante la prima guerra mondiale, il tenente Peter O’Toole è un cartografo inglese di stanza al Cairo. Interessato alla cultura araba e convinto che le tribù possano diventare un prezioso alleato contro i turchi, che presiedono la penisola araba, viene mandato, tra lo scetticismo dei generali, a incontrare l’emiro Alec Guinness in mezzo al deserto, insieme al quale tenterà di mettere in piedi una rivolta (e se organizzi una rivolta con il futuro Obi Wan Kenobi, le possibilità di successo diventano notevoli). Non so da dove cominciare per magnificare un film di questo genere: la grandezza della messa in scena, tale da farlo sembrare una sorta di Dune ante litteram (non a caso ispirò pesantemente il romanzo di Frank Herbert, uscito tre anni dopo, dove la figura di Paul Atreides mostra molti punti in comune con Thomas Edward Lawrence), la bellezza delle immagini, i risvolti politici e strategici di ogni battaglia, i tanti semi gettati nella storia del cinema (raccolti appunto da Dune, ma anche da Star Wars, Braveheart o Avatar, a mio avviso), oltre ad aver ispirato generazioni su generazioni di cineasti. Sette premi Oscar, ma soprattutto un film enorme.
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Un film di Clint Eastwood non è mai soltanto un film di Clint Eastwood: quando ti siedi sulla poltroncina del cinema e le luci si spengono, avverti immediatamente il peso di decenni di cinema e delle aspettative che un nome del genere porta con sé. Uno che, alla veneranda età di 94 anni, vanta come sia come attore che come regista una filmografia impressionante. Con questo bagaglio di capolavori passati è problematico patteggiare con questo suo ultimo film, quasi un incrocio, più o meno riuscito, tra La Parola ai Giurati di Sidney Lumet, Delitto e Castigo e Un giorno in pretura (la trasmissione televisiva, non il film): il senso di colpa, la morale, il bisogno di dare un senso alla parola giustizia, tutti temi incredibilmente interessanti, forse affrontati da Eastwood con un sentimentalismo eccessivo per uno che per tutta la vita non ha fatto altro che mostrarci quanto fosse tosto.

Le premesse, tuttavia, sono incredibilmente coinvolgenti: Nicholas Hoult ha una bella moglie (Zoey Deutch, di cui già mi ero follemente innamorato in Tutti Vogliono Qualcosa di Linklater) e un bebè in arrivo, quando viene chiamato a far parte della giuria in un caso di omicidio. Quando si trova in aula ad ascoltare che l’imputato ha ucciso la moglie all’altezza di un cavalcavia e poi l’ha gettata in un dirupo, capisce che quella stessa buia e tempestosa notte, su quella stessa strada, quello che aveva colpito con la sua auto non era forse un cervo. Il conflitto è quindi atroce: il giurato ha letteralmente il potere di assolvere l’uomo e distruggere la propria famiglia o di farsi mangiare dal rimorso, pur salvando la propria vita. Cosa succederà ora? Questa è davvero una domanda che ci terrà per qualche minuto letteralmente agganciati alla poltroncina.

Il secondo atto, che si apre con l’omaggio al capolavoro di Lumet (e per un paio di minuti rasenta il remake), si regge sulle spalle di J. K. Simmons, che ruba la scena a un Hoult troppo impegnato a commiserarsi nei suoi dilemmi etici per non sembrare eccessivamente posticcio. Da qui in poi il film è impostato sul pilota automatico, tra continui primi piani sulla sofferenza del protagonista, svolte più che prevedibili e la solita retorica nazionalista del nostro Clint, che fa brindare i suoi avvocati alla grandezza del sistema giudiziario americano e solleva dubbi nel suo pubblico ministero dopo una semplice occhiata al motto In God we trust, affisso in aula. Giurato Numero 2, nonostante le ottime premesse, fa il suo compito e a suo modo funziona, ma tutto ciò che ne esce fuori è il classico “bel film da guardare in aereo”.

https://unavitadacinefilo.com/2024/11/11/recensione-giurato-numero-2-2024/

Horizon è il tipico insediamento dei film western verso il quale sono tutti diretti. Horizon è il mito della frontiera, è l’ovest, è una promessa, è un punto d’arrivo, è la speranza. La città di Horizon, per molti se non per tutti, sembra essere il futuro: “Un luogo in cui riesco a immaginarmi”, afferma il personaggio interpretato da Kevin Costner. Spesso però il viaggio non è la destinazione, ma il percorso fatto per raggiungerla ed è questo il succo delle prime tre ore di questa epopea ambiziosa, non sempre avvincente, ma comunque imponente messa in piedi da Kevin Costner in questo primo capitolo dell’American Saga di Horizon, che prevede una seconda parte in uscita ad agosto e altri due film attualmente in lavorazione (anche se il deludente esordio al box office statunitense, a fronte del 100 milioni di dollari spesi, potrebbe far cadere tutto il castello).

Raccontato attraverso quattro storie parallele, intersecate tra loro, Horizon è praticamente l’episodio pilota più lungo della storia del cinema, in cui vengono presentati personaggi, ambientazioni, caratteri e obiettivi. C’è la vedova Sienna Miller, sfuggita al massacro da parte degli Apache, che ha una cotta per il tenente dell’Unione. C’è il cowboy solitario, Costner in persona, che si prende a cuore la causa di una prostituta, scortandola per un’America ostile insieme al bambino (non suo) di cui lei si sta prendendo cura. C’è la carovana in viaggio attraverso lande desolate e pericolose, guidata da un saggio Luke Wilson, oltre agli inevitabili cacciatori di indiani, insieme ai quali si muove un giovane adolescente che sta appena cominciando a distinguere il bene dal male.

Una sorta di miniserie composta da film interminabili, con una regia ad ampio respiro, che sfrutta i sensazionali paesaggi statunitensi, così come la splendida fotografia di J. Michael Muro. In questo costosissimo progetto c’è la nostalgia del cinema americano nei confronti del suo genere per eccellenza, il western, qui omaggiato in ogni sua forma. Il primo capitolo come detto mette le carte in tavola, è quasi un lungo preambolo a ciò che presumibilmente vedremo nei film successivi, se mai il regista riuscirà a girare anche l’altra metà del progetto. Non tutto funziona a dovere, ma sequenze come quella dell’assedio di Horizon, del bagno notturno di un’inglese tanto bella quanto viziata o del tentato battesimo del fuoco del giovane pistolero, sono barlumi di splendido cinema che rendono necessaria l’attesa per il secondo capitolo (in arrivo a metà agosto). Polvere, tramonti infuocati e una costante necessità di sopravvivere: un western vecchio stile di questa portata forse è un po’ troppo anacronistico rispetto al cinema di oggi, ma la bellezza di certe immagini non può mai passare di moda. Le premesse per una grande opera ci sono: aspettiamo fiduciosi il resto.

https://unavitadacinefilo.com/2024/07/03/recensione-horizon-capitolo-1-2024/

Ho riflettuto un attimo meglio sul fatto del #new3DS, i #problemi di corruzione, la perdita dei dati, e ho capito una cosa importante… ho fino ad ora interpretato nel modo sbagliato il #significato di tutti questi ripetuti #avvenimenti. È chiaro che sono un segnale divino da parte di #Nintendo, che cerca di farmi capire che io nello specifico voglio sempre troppo dalla tecnologia e, in generale, pretendo troppo dal mondo, non riuscendo mai a fermarmi ad apprezzare quello che già ho, ma dovendo sempre costantemente stare ammorbata appresso a qualche oggetto o software da odiare, e di cui sparlare. I fastidiosi crash a casaccio? Non sono un malfunzionamento del sistema, ma è semplicemente il modo in cui questo cerca di dirmi che “esiste un luogo e un tempo per ogni cosa, ma non ora“. La corruzione totale di tutti i salvataggi? È un modo per ricordarmi che tutto ha un inizio e una fine, e qualche volta bisogna rifare una cosa da capo per arrivare alla vera fine; magari la prima volta non la si è fatta degnamente. Insomma, non sono da vedere come intoppi nella giornata o punti di stress della settimana, bensì come #momenti di apprendimento e #meditazione. 🙏

Quindi, ormai ho deciso: anziché lasciare quello a prendere polvere e usare tutto il resto, prendo e butto via tutto il resto, proprio eccetto per il #3DS, che d’ora in poi dovrà essere l’unico mio dispositivo digitale, e solo così apprezzerò appieno tutti quei suoi enormi pregi che ai miei occhi viziati appaiono ancora come #difetti. Il PC, gli Androidi, le altre #console… tutto in discarica, per sempre (eccetto il router di casa, che in primis senza quello non posso collegare la console ad Internet, e poi in ogni caso, se lo facessi sparire, i miei mi farebbero giustamente un culo tanto). Non la venderò neppure questa robaccia, mi sentirei in colpa a rifilare questi terrificanti #aggeggi ad altre persone ignare, portando anche la loro anima a venir soggiogata; no, deve tutto sparire proprio dalla faccia della Terra. Anche il server verrà levato di mezzo probabilmente, questo nuovo funziona abbastanza bene ma comunque ci sono quelle cose che fanno perdere tempo e pazienza precisamente 1 volta ogni 6 giorni, quindi non ne vale proprio la pena, si stava meglio quando si stava peggio. 😷

Come vedete dalla foto in oggetto (scattata dal #new3DSxl con cui sto anche scrivendo; si, non posso direttamente inserire emoji, ma le copincollo da altri siti), per la roba piccola come il telefono mi sto portando avanti già proprio ora a buttarla nella #monnizza, mentre a quella grossa penserò magari domani, che oggi è l’ #1aprile, io sono stanca, è pure tardi, e insomma, basta, voglio un minimo di pace in questo istante… (Anche se ora che ci penso credo che almeno un telefono base base dovrò tenerlo sotto mano… al massimo userò un dumbphone di quelli vecchi, no Java no web no haram, solo chiamate insomma.) ✋

https://octospacc.altervista.org/2024/04/01/basta-butto-via-tutto-seriamente-non-e-uno-scherzo-assolutamente/

Il cinema più e più volte ci ha raccontato storie di fotografi di guerra, sia reali (come il Bang Bang Club del film omonimo o la Marie Colvin di A Private War) che di finzione (Mille Volte Buona Notte, Salvador, giusto per citarne alcuni): ad accomunare le loro vicissitudini era un’ambientazione sempre lontana dagli agi e dalle sicurezze dell’Occidente, visto che tali storie si svolgevano in Medio Oriente, in Africa o in America Latina. Il regista Alex Garland capovolge questo cliché, approfittando del grande periodo di confusione degli Stati Uniti (proprio nell’anno delle elezioni), per raccontare il futuro pessimistico e, si spera, utopistico del suo Paese, con una sconvolgente guerra civile che sta mettendo in ginocchio la popolazione. Il punto di vista è quello di quattro reporter molto diversi tra loro, in viaggio da New York fino alla Casa Bianca.

Garland porta lo spettatore di peso dentro le zone di guerra, tra proiettili che fischiano nelle orecchie e un’estetica disumanizzante, che vorrebbe apparire distaccata, come ci mostra l’esperta fotoreporter Lee Miller, ma che invece è scioccante e spaventosa, come appare agli occhi della novellina Jessie. Non ci è dato conoscere il background politico della questione, i perché e i percome della secessione in atto tra le Western Forces (Texas e California) e Washington, non è infatti questo il punto del film. Il punto è che c’è una storia che deve essere raccontata (quella degli ultimi giorni di un presidente fanatico, vicino alla resa) e c’è un gruppo di persone che ha il dovere di raccontarla: in mezzo c’è la sofferenza di un Paese sconvolto, distrutto, spaventato dove la parola democrazia ha ormai da tempo perso quella che sembrava essere la sua indiscutibile potenza. Una metafora non troppo velata delle tante divisioni e delle crudeltà che gli Stati Uniti stanno affrontando in questi ultimi anni (e che potrebbero aumentare in maniera esponenziale in caso di una nuova elezione di Donald Trump).

Civil War, nella sua apparenza da road movie post-apocalittico, intende parlare più degli Stati Uniti che di giornalismo, più di umanità che degli occhi intenti a documentarla, senza mai il lusso di poter distogliere lo sguardo, in nome della verità. Un lusso che non hanno neanche gli spettatori, in particolar modo quelli statunitensi, nel vedere le loro città distrutte, ridotte in macerie, così come noi spettatori europei, non abituati a vedere guerre nel nostro comodo e sicuro Occidente. Alex Garland sembra quasi voler lasciare un monito, portando la guerra per le nostre strade, alla porta di casa nostra. Oggi tocca a Kiev e Gaza, domani toccherà a noi? Attenzione dunque se avete intenzione di voltare lo sguardo da un’altra parte, perché anche se noi ci crediamo assolti, siamo lo stesso coinvolti.

https://unavitadacinefilo.com/2024/03/26/recensione-civil-war-2024/

Giusto un #pensiero, che mi è venuto mentre ieri sera mi stavo addormentando, e che avrei perso credo per sempre se proprio ora non mi fosse tornato alla mente: la #parolapassword” ha il potenziale latente di essere un #ossimoro. 🗿

Il #significato letterale in #italiano, lo sapete, sarebbe “parola di passaggio”, cioè quella #stringa di #testo che permette di accedere a qualcosa… ma se traducessimo la parola nella nostra #lingua dall’inglese correggiuto, anziché dal normale #inglese? Ecco che avremmo la “passaparola“. E questo è #poetico, perché una #password è esattamente quel genere di #informazione che, di solito, si dovrebbe evitare di far finire nelle grinfie di un passaparola; va tenuta #segreta, in genere. 🤫

Credo che l’unico motivo per cui noi #italiani non abbiamo preso il vizio di dirla così, al contrario di altre #espressioni #anglofone che sono state distorte, è perché dire “registrati inserendo un nome utente e la tua passaparola” sembra una #frase proveniente da un dialogo di Pokémon che menziona, che ne so, uno strumento chiave. 👾

E, un’altra cosa a riguardo della questione che fa molto pensare, ma è diversa: quella che in genere si definisce una “password sicura”, non può quasi mai essere una semplice “password”, ma piuttosto deve essere una “passphrase“, o anche, direi, una “passstring“; cioè, rispettivamente, una frase con #parole multiple, oppure una sequenza di caratteri che abbia un’entropia più alta della parola media nella lingua umana media. Viviamo proprio in una società… 💀

https://octospacc.altervista.org/2024/02/06/se-solo-fosse-passaparola/

fritto misto di octospacc · se solo fosse passaparola... - fritto misto di octospaccGiusto un #pensiero, che mi è venuto mentre ieri sera mi stavo addormentando, e che avrei perso credo per sempre se proprio ora non mi fosse tornato alla mente: la #parola “password” ha il potenziale latente di essere un #ossimoro. 🗿 Il #significato letterale in #italiano, lo sapete, sarebbe “parola di passaggio”, cioè quella #stringa […]

Capitolo 246

Eccomi nuovamente a Roma, dopo quindici bellissimi giorni nella mia seconda terra, la Puglia. Tornare nella Città Eterna a fine luglio mi fa sentire un po’ tipo Clint Eastwood ne “Il Buono Il Brutto il Cattivo”, quando Tuco lo obbliga ad attraversare il deserto sotto il sole rovente. Ecco, mi sento proprio così, strisciante nell’asfalto romano, con il pensiero fisso del mare, dei panzerotti e di quella dolce brezza cullata dalle onde. Bon, dopo questa nostalgica ed amara introduzione, passiamo alle visioni di questo periodo di vacanza, tra treni che andavano, treni che venivano e terrazze stellate.

Funeral Party (2007): Viaggio d’andata in treno. Lo scorso anno, non so perché, guardai “Zabriskie Point” di Antonioni, quest’anno ho imparato la lezione e mi sono buttato su una commedia che non vedevo da tanti anni. Forse il film più divertente di questo secolo, ricordo che al cinema, ai tempi, sono finito sotto la poltroncina per quanto stavo ridendo. Anche in treno sono riuscito ad attirare lo sguardo di alcuni passeggeri che mi stavano sentendo ridere un po’ troppo sguaiatamente. Capolavoro.

Phenomena (1985): Altro film già visto, che però stavolta non vedevo davvero da circa 25-30 anni. Visto che sto dando ripetizioni di Dario Argento alla mia dolce metà, grazie a Prime Video mi sono imbattuto in quest’altro grande classico: atmosfere come sempre bellissime, anche se nei film del buon Dario la plausibilità non è proprio di casa. Ha retto comunque il peso del tempo, confermandosi un ottimo prodotto di genere. Jennifer Connelly prometteva proprio bene (in tutti i sensi): ma che fine ha fatto?

Ammore e Malavita (2017): Se i Manetti Bros non ci fossero, bisognerebbe inventarli. Un musical tra camorra e canzone napoletana, uno dei grandi successi italiani della scorsa annata cinematografica. Finalmente sono riuscito a recuperarlo e, sebbene continui a preferire “Song e Napule”, devo dire che anche in questo caso il film funziona in ogni dettaglio: la musica, gli attori, l’ambientazione, la storia. Splendido.

Rocky (1976): A Roma non ho il televisore, motivo per cui ogni volta che mi trovo a Monopoli, dove il televisore c’è, devo assolutamente guardarmi almeno un film in tv. Un mercoledì sera bello fresco mi imbatto nel capolavoro partorito da Stallone: e che fai, non te lo rivedi per la trentacinquesima volta? Ma di che stiamo parlando, i brividoni!

Non buttiamoci giù (2014): Da un libro molto bello di sua maestà Nick Hornby, un adattamento che, pur essendo piuttosto godibile, non ha la brillantezza né l’acutezza del romanzo. Visto però che ci stanno un sacco di rompiballe che quando vedono un film devono per forza dire che il libro è meglio (e ti credo, a meno che il film non sia di Kubrick) e visto che non voglio assolutamente fare la parte del rompiballe, diciamo che il film preso così com’è è comunque molto carino (e poi da quando ho visto “Roadies” ho una cotta per Imogen Poots). Dimenticavo, Toni Collette tanto per cambiare fa la parte di una madre disagiata: che novità!

Funny People (2009): Mi domando come facessi a non conoscere questo film, proprio io che sto sempre molto attento a ciò che si muove nel panorama indipendente. Judd Apatow (creatore della serie “Love”) riunisce in due ore e mezza (!) di film alcuni tra i maggiori comici del momento: Adam Sandler, Seth Rogen, Jonah Hill, Aziz Ansari e un sacco di altra gente. Mi è piaciuto, non è assolutamente male, non è proprio una commedia, anzi, però la durata è decisamente esagerata. Adam Sandler nei ruoli drammatici funziona davvero bene.

England is Mine (2017): Aspettavo questo film con grande curiosità visto che gli Smiths sono tra le mie band preferite. Niente, soporifero fino alla nausea, la regia è piatta, senza guizzi, la storia è totalmente monocorde. Inoltre, trattandosi di una biografia non autorizzata, non ci sono le canzoni degli Smiths. Tempo perso.

Slacker (1991): Il viaggio di ritorno in treno, che grazie a Trenitalia è durato 8 ore invece di 6, è stato allietato dal film d’esordio di uno dei miei registi preferiti, Richard Linklater. Dare un giudizio è complicato, perché non c’è una trama vera e propria, semplicemente ci sono gruppi di ragazzi che si incontrano casualmente e danno continuamente vita a nuove scene del film, dove si parla un po’ di tutto. Interessante manifesto di una generazione di “fannulloni” più o meno intellettuali, il talento di Linklater era già cristallino.