Dissidenza di sinistra durante la lotta di Liberazione
A Torino, nel 1943, molto attivo nelle fabbriche, con un’adesione quasi pari a quella del PCI (duemila militanti) operava il Partito Comunista Integrale. A partire dal nome stesso, questo gruppo si considerava il depositario del vero marxismo, distinguendosi dal PCI, che sarebbe invece venuto meno ai compiti che si era proposto al momento della sua fondazione. Il Partito Comunista Integrale lavorava per la costituzione di un vero partito “leninista”, formato da quadri educati al rigore ed alla disciplina della lotta. Gli esponenti di spicco del gruppo erano Pasquale Rainone, operaio Fiat, licenziato dalle Ferrovie per la sua attività politica, molto conosciuto nelle fabbriche e nella Barriera Torinese per la sua presenza attiva nelle lotte. Insieme a lui operava Temistocle Vaccarella, di professione cappellaio, originario di Avellino. Essi non condividevano appieno le analisi della situazione (Vaccarella era molto più critico verso il PCI, più intransigente), ma erano accomunati dal medesimo impegno politico nelle fabbriche. Il gruppo pubblicava il giornale Stella Rossa, e i suoi militanti furono i primi a formare, dopo l’8 settembre, le bande armate contro i nazifascisti, rivendicando un antifascismo rivoluzionario, al di fuori di ogni alleanza con le forze borghesi. Nelle fabbriche avevano anche organizzato i loro GAP, distinti da quelli del PCI. Fra i gruppi dissidenti erano i soli a tentare una distinzione di classe tra nazisti e proletari tedeschi, anche se questa differenziazione era sostenuta solo a livello teorico. La critica, dai toni anche molto duri, che rivolgevano al PCI, definito “centrista”, era di partecipare al tentativo borghese di cloroformizzare le masse, attraverso la democrazia, che non era altro che la maschera borghese del capitalismo, allo stesso modo del fascismo. La contraddizione di fondo della loro impostazione politica, che caratterizzava tutti i gruppi dissidenti con l’unica eccezione del PCint., era il giudizio sull’URSS. Il PC integrale si riteneva il rappresentante del socialismo sovietico in Italia: nessuna critica era mossa allo stalinismo e all’URSS, anzi, gli attacchi portati al PCI erano condotti in nome del “paese del socialismo”, del quale offrivano un’immagine creata da loro stessi. Di conseguenza, la critica al PCI investiva l’operato del partito dalla caduta del fascismo in poi. A Stella Rossa non furono risparmiati gli attacchi diffamatori del PCI. Il grosso seguito che il gruppo aveva nella situazione operaia torinese lo rendeva pericoloso agli occhi dei dirigenti del PCI. Al PC integrale erano rivolte le solite accuse di attendismo. Le invettive erano rivolte prevalentemente contro il “sinistro” Vaccarella, ma nei suoi confronti si andò oltre gli attacchi verbali.
[…] Un altro gruppo di dissidenti era quello riunito attorno al giornale Il Lavoratore di Legnano. Legnano era una città a forte tradizione operaia, c’erano nuclei attivi di operai comunisti, che dopo la caduta del fascismo si trovarono su posizioni più a sinistra del PCI. Il gruppo de Il Lavoratore criticava l’accordo politico del PCI con le forze borghesi, ma non metteva in discussione il suo ruolo e accettava la coalizione dei CLN. Essi ritenevano che la lotta del proletariato contro il nazifascismo, dovesse avere un carattere essenzialmente anticapitalistico e non propugnavano alcuna “democrazia progressiva” o “popolare”, ma la lotta prima contro il nazifascismo e poi contro il capitalismo. Rispetto agli altri gruppi, non esaltavano l’URSS. I personaggi più rilevanti dell’organizzazione erano i fratelli Venegoni; Carlo era stato fra i costitutori del Comitato d’Intesa ed in seguito si era schierato con Gramsci. <23 Nel 1942 aveva avuto, al momento della formazione del PCint., dei contatti con Maffi, il quale gli aveva proposto di entrare nel partito, ma egli aveva rifiutato. Il gruppo era vicino al PCI ma era da esso attaccato al pari degli altri dissidenti, in particolare per i contatti avuti con Prometeo e Stella Rossa. Esso fu riassorbito nel partito nel luglio 1944. Molto vicino al gruppo de Il Lavoratore, con il quale intratteneva anche rapporti di collaborazione, c’era un gruppo di esponenti della sinistra del PCd’I formato da vecchi militanti del partito, Repossi, Fortichiari, Mario Lanfranchi, Della Lucia. <24 Essi si incontravano già negli anni ’30 e avevano stilato documenti a volte firmati a nome di un “Gruppo comunista” o “Sinistra comunista”. Essi lavoravano parallelamente agli altri gruppi, con i quali concordavano su molti aspetti. Nel 1943, Fortichiari aveva chiesto di entrare nel PCI dove fu ammesso solo dopo il 25 luglio, insieme a Repossi era stato contattato da Damen e anche da Maffi per un confronto su alcune questioni politiche. Egli non credeva nella politica del PCI, ed era molto critico sull’URSS, ma riteneva possibile cambiare qualcosa solo agendo all’interno del partito.
[NOTE]
23 Ibid., p. 205 e sgg.
24 Mario LANFRANCHI fu in un certo senso il finanziatore della Frazione, possedeva una azienda concessionaria di macchinari agricoli tedeschi esclusiva per la Francia. Nella stessa fabbrica lavorava Della Stella e suo figlio. Egli permise alla figlia di Damen di proseguire i propri studi. (Testimonianza di Piero Corradi).
25 B. FORTICHIARI, cit., pp. 170-176.
Angela Ottaviani, La sinistra comunista dai Fronti Popolari alla Resistenza, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Roma “La Sapienza”, Anno Accademico 1990-1991
A livello ufficiale, il Partito comunista tacciava con un termine dall’odore di anatema tutti coloro che si ponevano alla sua sinistra: ‘sinistrismo’, variabile di ‘estremismo’ e, ancora più antico, ‘trotzkismo’. Famoso resta l’infelice articolo di Pietro Secchia dal titolo “Sinistrismo maschera della Gestapo” <296, con il quale alcuni storici hanno ipotizzato si era giustificata dalle pagine de l’Unità la condanna a morte di alcuni leader partigiani di gruppi trotzkisti o antisovietici, ma non solo: il dubbio di una simile condanna pesa anche sulla figura di Lelio Basso, socialista rivoluzionario, tra i più agguerriti oppositori alla politica di unità ciellenista a tutti i costi <297. Scritto peraltro da un esponente di primo piano del PCI sospettato più avanti egli stesso di estremismo interno, esso sembra rivolto anche a un certo sinistrismo proprio di quadri e militanti del partito; in questo caso il termine utilizzato è ‘settarismo’, per indicare un senso di appartenenza tale al partito e alla classe operaia da incrinare la linea stessa del partito. Infatti “L’estremismo entrava più nel merito e proponeva contenuti diversi e tempi veloci facendo coincidere la grandiosità dell’obiettivo con l’immediata possibilità di realizzarlo. Non si trattava tanto di malattia infantile, quanto di intensità della richiesta. Nella realtà avveniva un complicato gioco di relazioni fra settarismo ed estremismo, che dava vita a forme varie di ‘sinistrismo’ “. <298 Significativo, da questo punto di vista, il gruppo milanese riunito attorno ai fratelli Venegoni e al giornale “Il Lavoratore”: “La sola formazione esterna al Pci presente con solidi legami di massa è quella che si esprime attraverso ‘Il Lavoratore’: è un gruppo locale, ed opera nel circondario di Legnano dove il suo ascendente è molto forte. Dal giornale emergono molto forti le riserve sullo stalinismo del Pci, e dai rapporti conservati nell’archivio del Pci si desume anche che un’aspra polemica lo contrapponeva al partito perché quest’ultimo sarebbe stato presente troppo debolmente negli scioperi di marzo [1943, nda]”. <299
Anche se, nel giudizio espresso da Luigi Longo a Roma, il gruppo è orientato in senso estremista, ma non antipartito. <300 E ancora più importante risulta il gruppo bassiano del Movimento di unità proletaria fondato il 10 gennaio 1943 e che per lungo tempo, dopo il rientro di Basso nel PSI (nel settembre ’43), rappresentò l’unica formazione antiattendista in campo socialista <301. La figura di Basso è piuttosto particolare: esponente di un socialismo operaista dichiaratamente rivoluzionario, favorevole all’unità di intenti con il PCI e al tempo stesso critico da sinistra sulle posizioni di compromesso che la dirigenza comunista assume dopo la svolta di Salerno.
[NOTE]
296 Ricordiamo, per correttezza, nonostante la palese asimmetria organizzativa, che anche nel fronte estremista ci sono state prese di posizione radicalmente antagoniste, come quella comparsa il 1° marzo 1945 nell’articolo ‘Sulla guerra’ sul giornale bordighista Prometeo in cui si affermava che ‘alle tre maschere del nemico di classe (democrazia, fascismo, sovietismo), il proletariato risponde trasformando la guerra in rivoluzione’.
297 Cfr. G. Monina, Il Movimento di Unità Proletaria (1943-1945), Carocci Editore 2005
298 C. Pavone, Una guerra civile, op. cit., p. 367
299 L. Ganapini, op. cit., p. 67
300 Lettera del 6 dicembre 1943, in C. Pavone, Una guerra civile, op. cit., pp. 370-71
301 Se consideriamo che le Brigate Matteotti, legate appunto al PSI, furono fondate solo dopo la metà del 1944.
Elio Catania, Il conflitto sociale: “motore della Storia” o “tabù” storico-politico. Il caso di Milano nel secondo dopoguerra, Tesi di laurea magistrale, Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia, Anno Accademico 2016-2017
«Le formazioni che si svilupparono alla sinistra del Pci e del Partito socialista, oltre a contrastare i due partiti sul piano politico, riuscirono a conquistarsi un seguito alquanto notevole, anche se solo per alcuni mesi. La “dissidenza” di sinistra, se così si può definire, non era tipica di alcune zone d’Italia ma si estendeva su tutto il territorio occupato e travalicava i confini militari per ripresentarsi nell’Italia liberata dalle truppe alleate» <26.
Queste parole aiutano a comprendere quale sia stata l’effettiva espansione e l’incidenza di questo fenomeno, i cui strascichi possono essere individuati a fasi alterne anche per un lungo periodo del dopoguerra.
La nascita di queste esperienze può essere collocata nel periodo compreso tra l’8 settembre e l’effettiva occupazione del territorio italiano dalle truppe tedesche, quando il governo monarchico di Badoglio rese esplicita, ancora una volta, la volontà di proseguire la guerra, questa volta schierato al fianco dell’esercito alleato.
Le agitazioni e gli scioperi che si susseguirono in questo momento di transizione costrinsero le autorità centrali a coinvolgere nell’azione di governo i partiti antifascisti appena usciti da una clandestinità durata vent’anni. L’azione di quest’ultimi, se in qualche modo fornì maggiore legittimità alle istituzioni, venne vista da sinistra come un tradimento rispetto alle aspettative rivoluzionarie delle classi lavoratrici e come un modo per inserire la guerra di liberazione entro gli argini di una non meglio identificata lotta democratica.
«Per il Pci e il Psi non si trattava infatti di mettere in discussione il potere di quella borghesia che aveva convissuto col fascismo nel ventennio appena trascorso, ma di allearsi con quei settori che ne accettavano la guerra democratica. Era in pratica la riproposizione delle guerre risorgimentali per riconquistare l’unità del territorio nazionale, con una differenza sostanziale: questa volta la classe operaia, ormai diventata “classe nazionale”, doveva porsi come forza d’avanguardia e d’esempio alle altre classi» <27.
In questo contesto ebbero dunque gioco facile i proclami oltranzisti che avevano caratterizzato la componente massimalista del PSI e quella bordighista del PCI in seguito al congresso di Livorno nel 1921. Branditi con entusiasmo dalle generazioni più anziane di militanti, queste dichiarazioni ebbero l’effetto di una calamita per quei tanti che non avevano soppresso i propri ideali durante i lunghi anni di dittatura fascista.
Al settarismo di questa componente, che legava alla militanza un forte richiamo simbolico alla tradizione <28, si affiancò un estremismo dettato dalla volontà di fare tutto e subito, di segno differente rispetto alle velleità dei
vecchi militanti. Era la spinta in avanti di quei giovani che intravedevano nella guerra partigiana un’occasione di riscatto, un afflato rivoluzionario che andava colto nella sua interezza prima di essere soffocato dalla reazione delle forze borghesi.
«Dell’aspettativa che la caduta del fascismo travolgesse con sé anche il capitalismo non esisteva soltanto una versione dotta, catastrofica e terzinternazionalista […]. Esisteva anche una versione vissuta attraverso l’immediata identificazione del fascista con il padrone e l’aspettativa di un mondo nuovo, del socialismo o del comunismo (la distinzione fra i due termini, nettissima sul piano pragmatico e di partito, sul piano dei principi ideali sfumava fino a dissolversi)» <29.
L’alternanza tra queste due anime, il cui contrasto non è così netto come potrebbe sembrare, si aggregò nei gruppi dissidenti, pur formando elaborazioni ideologiche differenti: secondo Pavone <30 ci fu infatti chi si attestò su posizioni di attendismo messianico in nome della purezza della lotta di classe, e chi si lasciò trasportare da una sorta di “settarismo militare”.
Nessuna di queste posizioni, d’altronde, era estranea all’humus militante del PCI, ma creò un precedente allarmante nel momento in cui diede origine alla nascita di organizzazioni dissidenti.
Questa “area grigia” della dissidenza faceva capo a una moltitudine di riferimenti ideologici, che passavano dal sindacalismo anarchico al cosiddetto “bordighismo” (i cui confini teorici rimangono molto sfocati) per approdare allo scissionismo trockista. Il “sinistrismo”, come verrà definito dai vertici del PCI, comprendeva vaste aree di delusi dalla politica centrista, e venne pesantemente attaccato dagli organi ufficiali del CLN e dei partiti che vi facevano parte.
La sua presenza e la sua intensità furono tanto maggiori in quelle aree in cui il radicamento dei partiti ufficiali era più difficoltoso, soprattutto nelle grandi metropoli industriali come Torino e Milano. Nel sud Italia prese forma soprattutto tramite la ricostituzione della Confederazione Generale del Lavoro e scontò una forte avversione anche da parte del governo badogliano, laddove la presenza degli alleati avrebbe dovuto garantire un “ritorno alla normalità” tramite una spietata repressione nei confronti dei moti popolari.
Nel Nord, infatti, la contiguità tra le lotte operaie e la guerriglia partigiana aiutò in qualche modo a saldare il mito della liberazione nazionale con quello del “balzo in avanti” delle classi lavoratrici, accentuando anche le aspettative nei confronti di quella che si andava prospettando come “insurrezione finale”; nel Sud, partendo da Roma, l’insofferenza per la monarchia e il nuovo fascismo “mascherato” rinsaldarono la consapevolezza di dover superare le ambiguità della politica di unità nazionale e pretendere da subito alcune priorità: risoluzione delle urgenze economiche dei braccianti agricoli, maggiori agevolazioni in campo politico e smantellamento del vecchio ordinamento fascista.
In certi casi, le parole d’ordine altisonanti e la condotta meno politica e più spontanea di alcuni gruppi dissidenti può sembrare anacronistica o improduttiva ai fini del nuovo orizzonte politico che andava delineandosi in Italia, ma non va dimenticato come questi atteggiamenti fossero sicuramente condivisi da buona parte di quel segmento di popolazione che aveva intravisto nel PCI e nel PSI una concreta prospettiva di rinascita rivoluzionaria a guerra conclusa.
«E’ la voce di piccole sette, di gruppi già “dormienti” e che ora, illudendosi che stia per scoccare l’ora suprema dei conti con la borghesia, esprimono tutto il loro estremismo infantile? E’ un’azione di provocatori più o meno inconsci? E’, se non proprio una maschera della Gestapo <31, almeno una maschera dell’opportunismo attendista? Anche se esistono questi connotati, compresa la provocazione, il fenomeno indica piuttosto che all’inizio della lotta di liberazione emerge uno stato d’animo, tornano alla luce convinzioni dottrinali, tradizioni, impulsi di radicalismo classista, che sono più generalizzabili. Li troveremo per esempio nel Sud nelle file del Partito comunista e del Partito socialista, difesi dai quadri oltre che dalla base, li avvertiamo in nuclei operativi del Nord, tra gli intellettuali, i giovani, li sentiamo trapelare nei dibattiti dei gruppi dirigenti. E non è qui che sia dato di vedere una forte differenza tra Milano e Roma» <32.
E’ più che verosimile che queste dissidenze non costituirono mai una reale alternativa ai partiti di sinistra, soprattutto a causa della loro forte repulsione verso le politiche centriste del CLN, così come è un dato che, allo stesso tempo, esse «non furono in grado di recidere fino in fondo il cordone ombelicale che le legava alle ideologie della sinistra istituzionale» <33. E’ però vero che esercitarono un’effettiva influenza sulle masse più politicizzate della penisola, e il loro contributo di elaborazione teorica fu a sua volta riutilizzato dal PCI per assorbire il dissenso e mantenere una certa credibilità anche sul fronte delle aspettative rivoluzionarie.
I tentativi di questi gruppi di andare verso una piattaforma allargata e condivisa che si ponesse come un reale contraltare alla sinistra del CLN furono per lo più infruttuosi e scontarono, oltre alle divergenze ideologiche, anche una ferma opposizione sia da parte del governo centrale che dai militanti del “centro”.
E non sono ormai più un mistero nemmeno i tentativi (spesso riusciti) da parte del PCI di mettere a tacere una volta per tutte queste voci scomode tramite agguati e omicidi, per lungo tempo attribuiti alla rappresaglia fascista.
L’indebolimento che ne conseguì, unito all’assottigliamento delle divergenze teoriche tra le dissidenze e i partiti ufficiali della sinistra, convinse buona parte dei militanti che un “fronte unico” durante la guerra avrebbe favorito in larga parte una riorganizzazione della società in senso comunista a guerra terminata. L’assimilazione dei gruppi dissidenti divenne realtà anche prima dell’aprile 1945, ad esclusione di quei movimenti, decisamente minoritari, già precedentemente organizzati in partiti e le cui strutture potevano vantare una certa organicità. Il loro contributo subì una rimozione forzata all’interno dell’immaginario collettivo, per poi manifestarsi ciclicamente sotto nuove forme per un lungo periodo del dopoguerra, a dimostrazione del fatto che, se alcune voci erano state poste sotto silenzio, non valeva il medesimo discorso per i tanti militanti di base ancora illusi che l’alba nuova del socialismo non avrebbe tardato ad arrivare anche in Italia, magari accompagnata dalle divisioni dell’Armata Rossa sovietica.
[NOTE]
26 PEREGALLI A., La sinistra dissidente in Italia nel periodo della Resistenza, cit., p.63
27 Ibidem, p.61
28 «Settarismo, superiorità, saluto con il pugno chiuso, stella rossa, politica integrale, sfiducia e critica a tutto e tutti […]». PAVONE C., Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, cit., p.366
29 Ibidem, p.351
30 Ibidem, pp.366-370
31 Il sinistrismo e la maschera della Gestapo, in “La nostra lotta”, a.I, n.6, dicembre 1943, pp.16-19 è un articolo quasi sicuramente redatto da Pietro Secchia in cui vengono attaccati i più famosi gruppi dissidenti del nord Italia con l’accusa di essere agenti provocatori al soldo dei nazifascisti. Tornerò ad occuparmi più approfonditamente di questo articolo nel secondo capitolo.
32 SPRIANO P., Storia del Partito comunista italiano, cit., p.102
33 PEREGALLI A., L’altra Resistenza. Il Pci e le opposizioni di Sinistra, Graphos, 1991, cit., p.11
Tommaso Rebora, Oltre il PCI: “Stella Rossa” e i gruppi dissidenti nella Resistenza italiana, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Torino, Anno Accademico 2012-2013
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